Non più bambini ma non ancora adulti, intorno ai 12 anni ragazzi e ragazze si avviano lungo il difficile cammino della “terra di mezzo” dell’adolescenza, dove li attende una serie di prove: il corpo che cambia, la scoperta dell’amore e del sesso, la conquista dell’autonomia, il rapporto con le regole e l’autorità. E, soprattutto, la ricerca della propria identità e la scelta di un percorso di vita. Quali sono oggi i rischi, i desideri e le paure dei nostri ragazzi? E che cosa sa dirci la scienza su ciò che possiamo fare per aiutarli, comprenderli (e sopportarli) durante il faticoso percorso dall’infanzia al mondo dei “grandi”?
Alla ricerca di un sé
Che cos’è l’adolescenza per i ragazzi, per i loro genitori e per la società? Un tragitto lungo e spesso faticoso dall’infanzia all’età adulta, durante il quale costruire identità e progetto di vita.
L’adolescenza può essere definita come una fase della vita che incomincia nella biologia e finisce nella società. In molti paesi del cosiddetto Terzo mondo, l’adolescenza come età non esiste. Nel mondo occidentale è soltanto sul finire del XVIII secolo che questa età inizia a delinearsi all’interno di alcuni strati sociali, e si afferma di pari passo con la trasformazione delle comunità in società, ossia organismi caratterizzati da una pianificazione diversa e più articolata per quanto riguarda il lavoro, la preparazione professionale, i ruoli pubblici, le fasce d’età. Prima di allora, a scandire l’uscita dall’infanzia c’erano soltanto la pubertà, che è un evento biologico, e alcuni riti di accesso al mondo adulto, spesso praticati collettivamente.
Le innovazioni apportate dalla scienza e dalla tecnologia al mondo del lavoro e il crescente benessere economico che ha caratterizzato i paesi occidentali negli ultimi due secoli sono i fattori che più hanno consentito l’emergere di questa «terra di mezzo» tra infanzia ed età adulta. Oggi, moltissimi giovani continuano a studiare oltre i vent’anni, posticipano a tempo indeterminato le responsabilità della famiglia, dedicano gli anni giovanili alla formazione personale senza l’assillo di trovare un lavoro.
Ma, una volta comparsa sulla scena pubblica, l’adolescenza non ha più smesso di dilatarsi, tant’è che si sta delineando ormai da qualche anno una nuova età – la post adolescenza – in cui convergono quei giovani adulti che a ventidue, venticinque, trent’anni e oltre continuano ad abitare nella casa dei genitori e a dipendere economicamente da essi, scartando le attività lavorative che non sono conformi alle loro aspettative.
C’è una fase d’entrata nell’adolescenza e una d’uscita: e oggi può essere più semplice entrarvi che uscirvi.
Nella terra di mezzo
Ma che cosa rappresenta per i teenager il lungo soggiorno in questa terra di mezzo?
E che cosa rappresenta l’adolescenza per i loro genitori e per la società?
Dobbiamo considerarla un’età felice oppure problematica?
Un primo punto da considerare è che i ragazzi, come d’altro canto gli adulti e i bambini, possono essere molto diversi gli uni dagli altri per caratteristiche individuali e condizioni di vita; non tutti perciò vivono l’adolescenza come una fase difficile o hanno problemi con i loro genitori. Anche la durata dell’adolescenza varia a seconda delle storie personali. E’ però altrettanto vero che ogni adolescente ha un «lavoro» psicologico da svolgere per poter uscire dallo stato infantile e approdare a quello di giovane adulto: un lavoro su se stesso e nei rapporti con gli altri (famiglia, coetanei, società) che alcuni riescono a svolgere agevolmente, altri con difficoltà, ma che riguarda tutti quanti.
Per maggiore chiarezza, questo complesso lavoro psicologico può essere sintetizzato in una serie di «compiti». Un primo «compito» consiste nel rapportarsi con un corpo che cambia, assume forme molto diverse da quelle infantili ed è percorso da flussi ormonali che modificano l’umore, gli interessi e lo stile di vita.
Nell’infanzia, i padroni del corpo del bambino sono i genitori. Ora invece il compito di integrare i nuovi impulsi all’immagine di un corpo dalle forme sempre più adulte grava sul ragazzo, che deve imparare ad accettarlo, a percepirlo come parte integrante di sé, a gestirlo e anche a valorizzarlo. C’è chi si sente in sintonia con il «nuovo» corpo ed è soddisfatto dei cambiamenti in corso e chi, al contrario, vive una profonda insicurezza: teme di essere inadeguato, brutto, ha bisogno di rassicurazioni e incoraggiamenti, ha paura dei giudizi degli altri. E c’è anche chi non si sente autorizzato a crescere. Alcuni teenager arrivano a rifiutare le trasformazioni fisiche e cercano di restare bambini il più a lungo possibile.
Per molte ragazze anoressiche il rifiuto del cibo non è solo un’adesione alla moda della magrezza: rivela anche il bisogno di controllare la crescita della «cosa», ossia di quel corpo che viene a sovvertire un equilibrio con l’ambiente circostante che si pensava stabile e immutabile. Per altri si verifica una sorta di scissione temporanea tra l’io psichico e il corpo, le cui trasformazioni appaiono troppo rapide per essere assimilate, oppure troppo impegnative per riuscire a gestirle. Il corpo viene allora ignorato, oppure nascosto allo sguardo degli altri sotto enormi maglioni unisex.
Se a questo tipo di insicurezze si uniscono altre difficoltà con la scuola, la famiglia oppure i coetanei, allora fumo, alcool, farmaci e droghe possono assumere il valore di angeli protettori a cui i teenager ricorrono per darsi coraggio o, nei casi più problematici, dimenticare se stessi e la propria infelicità nel paradiso dei piaceri artificiali. Ovviamente questo tipo di rimedio rimuove temporaneamente il problema, ma non lo risolve. Mentre le «sostanze» allontanano i problemi, le timidezze, i malumori fino a incapsularli, piercing e tatuaggi sono invece i segni visibili e provocatori della presa di possesso del proprio corpo: un modo anche un po’ cruento per dichiarare al mondo che non si è più bambini e sotto il controllo dei genitori, ma persone autonome nella gestione del proprio corpo e della sessualità. E poiché non ne sono ancora del tutto sicuri, l’applicazione di anelli e l’iscrizione di segni permanenti sulla pelle sono modi per obbligarsi a uscire allo scoperto. Una volta che un tatuaggio fa bella mostra di sé sopra il pube o sul coccige diventa difficile mostrare timidezze.
Collegato alla presa di possesso del «nuovo» corpo, c’è il lavoro che un adolescente deve fare sulla propria identità. Si tratta di un compito non sempre facile, tipico della nostra epoca. In un passato ormai lontano, l’identità era data alla nascita dalla condizione sociale e dal genere (maschile o femminile), oggi invece ognuno se la deve costruire. E uno dei «doveri» della libertà e dell’individualismo. Nelle società olistiche (per esempio l’India tradizionale), dove l’identità di gruppo vince su quella individuale, questo compito è ridotto al minimo: i doveri sono soprattutto nei confronti della famiglia, della casta, della tribù. Nelle
società individualiste, invece, ognuno ha il compito e la responsabilità di conoscere se stesso, appropriarsi della propria sessualità (etero o omo), capire che cosa vuole o intende realizzare nella vita. Soltanto se sappiamo chi siamo nel mondo possiamo poi decidere a cosa aspirare, quali ruoli assumere, come relazionarci agli altri.
Non più ma non ancora
«Non sono quello che dovrei essere e neanche quello che ho intenzione di essere, però non sono più quello che ero prima». Questo aforisma, trovato dallo psicologo Erik Erikson in un saloon di cowboy, esprime lo stato d’animo dei ragazzi all’inizio dell’adolescenza. Prima di riuscire a sciogliere questo nodo dovranno fare prove e autovalutazioni, indossare identità diverse, capire come gli altri li vedono e alla fine venire a patti con la realtà rinunciando al sogno di una totale libertà di scelta e di autodeterminazione. I media e il mercato si sono inseriti con notevole grinta nella problematica identitaria dei teenager, fornendo immagini di identità di successo in gran parte irraggiungibili, e di identità-surrogato legate ai consumi.
Hanno compreso che gli adolescenti, prima di acquisire un’identità individuale stabile, vivono una fase di «moratoria» in cui esplorano identità diverse senza però impegnarsi in scelte definitive, e cercano di sfruttare a scopi commerciali questo loro atteggiamento ondivago, sia individuale che di gruppo. In anni in cui l’identità individuale è incerta, il gruppo degli amici – ma anche la banda, o la setta parareligiosa – può fornire un’identità più strutturata e rassicurante. La costruzione dell’identità individuale, però, soprattutto in un mondo in continuo movimento e di non facile interpretazione come quello attuale, richiede impegno, è tutt’altro che immediata e non è riducibile alla semplice acquisizione di abiti alla moda, automobili, rituali rassicuranti o gadget più o meno sofisticati. Molti comportamenti adolescenziali a rischio (alcool, droga, sfide, giochi pericolosi…) sono legati al bisogno giovanile di rischiare e di superare delle «prove» per dimostrare il proprio valore a se stessi e agli altri e ottenere considerazione, rispetto e autostima.
I cambiamenti che si verificano nel corpo e nella psiche a partire dalla pubertà portano i ragazzi a confrontarsi continuamente sia col mondo esterno sia con quello interiore, a testame i limiti, a verificare la consistenza dei confini tra il dentro e il fuori, tra l’autorizzato e il vietato, tra l’obbedienza e la trasgressione. Meno la realtà esterna offre limiti rassicuranti, significati e obiettivi che rendano questi limiti sopportabili, meno il soggetto si sente sicuro nello spazio che deve esplorare e più deve «lavorare» autonomamente per costruirseli. Col rischio, ovviamente, di spingersi troppo oltre. Se un giovane non riesce a dare un senso alla propria esistenza e a capire chi è e chi può diventare, può anche, per sentirsi esistere, provare tutte le devianze possibili. Ma i «compiti» dell’adolescenza non finiscono qui.
Le dinamiche con i genitori possono portare a esiti diversi, anche opposti: bisogna passare dalla modalità relazionale bambino-genitore a quella adulto-adulto. Soltanto in alcune società premodeme questo passaggio era rapido, sancito da un rito al momento della pubertà; oggi, salvo casi particolari, questo passaggio avviene gradualmente, sia per i figli sia per i genitori. II genitore deve accettare l’idea che il suo bambino sta diventando un adulto come lui, autonomo e autosufficiente. Il figlio deve rinunciare al bozzolo familiare e avventurarsi verso nuovi legami sentimentali e ruoli sociali.
Questo «lavoro» psicologico può essere agevolato dai familiari e anche dalla società, se quest’ultima offre reali opportunità di realizzazione. Non si tratta di spezzare i legami con la famiglia d’origine, ma di trasformarli, senza restare intrappolati nell’illusione che la propria famiglia sia il mondo intero e che il proprio spazio di vita si esaurisca in essa. In molti casi, lo strappo violento di un teenager con la famiglia non è tanto indice di una raggiunta autonomia quanto della difficoltà di acquisire una propria indipendenza emotiva senza dover rompere i ponti. Le cause di questo drammatico acting-out possono essere diverse: legate a uno stile educativo troppo punitivo e repressivo oppure trascurante e respingente, alle caratteristiche del giovane, alla strenua «resistenza» di un genitore, alle complesse dinamiche create dalle separazioni e dai conflitti, a traumi antichi mai superati. Per esempio, alcuni hanno difficoltà a separarsi dalla propria immagine di sé bambini, dal clima iperprotettivo in cui sono cresciuti, provano una profonda malinconia per ciò che dovrebbero lasciare e si sentono in colpa nei confronti dei genitori. Ci sono forme di depressione legate a queste dinamiche psicologiche. Ecco perché è importante che i genitori inviino ai figli il messaggio: «sono contento se anche tu diventi adulto come me». E’ normale che in una prima fase un ragazzo faccia delle «prove» di autonomia, ondeggi tra il bisogno di indipendenza e la voglia di protezione; man mano però impara ad autodirigersi, a contare di più su se stesso, a dipendere meno dai genitori. Ed è fisiologico che i genitori accettino l’evoluzione dei figli e non cerchino, con ricatti emotivi, di tenerli legati a sé. Ciò non significa, certamente, che debbano disinteressarsi o abbandonarli a se stessi; in un mondo complesso e pieno di insidie come quello attuale è importante che i ragazzi abbiano degli adulti di riferimento disponibili al dialogo, al confronto e, se è necessario, al litigio costruttivo. I ragazzi hanno bisogno di adulti che sappiano spiegare senza mettersi in cattedra, contrapporsi senza umiliare, aiutare senza creare dipendenza.
E gli adulti non devono lasciarsi mettere in crisi da critiche e attacchi, ma capire che i ragazzi stanno facendo dei tentativi per collocarsi nel mondo, delle «prove» per capire sin dove possono spingersi. Ciò che li ferisce veramente è l’indifferenza, che con il tempo provoca una frattura sempre più difficile da colmare. Un problema di questi anni è un’eccessiva separazione tra generazioni. Avere degli amici, stare insieme senza i genitori, condividere gusti e passatempi è un fatto del tutto normale e positivo. Tenere rigidamente separati il mondo dei teenager da quello degli adulti non è invece una buona strategia. In un mondo pieno di «sirene» in cui tanti vogliono vendere qualcosa ai giovani (non solamente oggetti, ma anche sogni, stile di vita, identità, visioni del mondo) i giovani hanno più che mai bisogno di buoni maestri, ossia di adulti che vogliano fare gli adulti, che sappiano valutare i pregi e difetti di questa società, capaci di motivare i ragazzi all’impegno e di portare avanti con loro un dialogo costruttivo. Il nostro cervello raggiunge la piena maturità intorno ai 20-22 anni, il che significa che gli adolescenti tendono a essere impulsivi e a non considerare le conseguenze delle proprie azioni. Riflessione e cultura sono invece dei validi correttivi. Mentre la relazione con i genitori, i nonni e i fratelli si trasforma, compaiono le prime storie d’amore.
Anche i bambini si innamorano e hanno una loro sessualità che esprimono attraverso l’autoerotismo; ma le due cose, affetto e sessualità, restano separate. Con l’adolescenza invece, si cerca una sintesi, si tenta di mettere insieme la dimensione biologico-sessuale con quella emotiva, affettiva e relazionale. Nelle prime storie d’amore però questa sintesi non è ancora raggiunta. La «cotta» può nascere da una frase, una piccola affinità, un atteggiamento sexy o anche perché lui/lei è popolare tra gli amici. Negli amori adolescenziali c’è attrazione fisica ma c’è anche bisogno di conferme: sentirsi desiderati, al centro dell’attenzione e dell’interesse altrui è un ricostituente per l’Io. Se mi amano, esisto. Così quando la storia finisce ci può essere una crisi di identità. Essere lasciati o rifiutati significa anche fare i conti con il dolore e la perdita, inevitabili nella vita.
Ma c’è un insegnamento: ci si rende conto che anche le tragedie che sembrano irreparabili si possono superare. Sul finire dell’adolescenza, nella mente di un giovane dovrebbe essersi delineato un progetto di vita (o piano d’azione) e delle strategie per realizzarlo.
Egli dovrebbe anche sentirsi abbastanza forte da riuscire a compiere delle scelte responsabili in campo sentimentale, lavorativo, politico o di impegno sociale, assumersi delle responsabilità e onorare gli impegni. Insomma, dovrebbe avere raggiunto una maturità intellettuale ed emotiva che gli consenta di orientarsi nel mondo contemporaneo, possedere apprendimenti sufficienti per avvalersi delle tecnologie e delle strutture di supporto della società, padroneggiare una serie di abilità tecniche e sociali, fare scelte informate e mature, formare relazioni umane basate sulla fiducia, saper essere di aiuto agli altri e saper chieder aiuto quando è necessario, diventare un cittadino consapevole, avere un codice morale, esser in grado di autodirigersi e non invece abbandonarsi passivamente alle mode e alle parole d’ordine. Ciò significa anche che deve essere venuto a contatto con forme di cultura adatte alla complessità del mondo in cui vive. Con questo bagaglio potrà finalmente lasciare la «terra di mezzo», e incominciare la sua vita da adulto.
di Anna Oliverio Ferraris