Come il papà può risolvere i conflitti

Come psicologo e come padre cercherò di comunicarvi le mie idee sulla paternità e sulla sua gestione, anche se, e questo deve essere assolutamente chiaro, nessuno può affermare di avere la verità assoluta: semplicemente vi darò la mia esperienza.
Ognuno di noi, in quanto papà e persona, deve essere aderente ai propri valori, e questa serata servirà a riflettere sulla propria paternità, che in questi anni ha avuto significative trasformazioni.

Quella odierna è una famiglia molto diversa da ciò che ci hanno proposto i nostri genitori e i nostri nonni. Una famiglia dove si sono rimescolati certi ruoli, una famiglia che ha progressivamente destrutturato il patriarcato, che ha dovuto scomporre o ricomporre gli elementi che la costituivano (vedi separazioni). Per questo motivo probabilmente mio padre non sarebbe mai venuto a una serata del genere: evidentemente aveva delle certezze, non si sarebbe mai messo in discussione perché la sua educazione era fondata su modelli che si trasmettevano di generazione in generazione senza influenze, come avviene oggi, dettate dalla globalizzazione. E poi aveva altri problemi, per esempio la fame, il mutuo della casa, ecc… che erano priorità legate più alla sopravvivenza; il modo con cui educava noi figli forse era secondario. Doveva lavorare, doveva ricostruire e quindi aveva meno tempo per riflettere sulla propria condizione. Oggi invece abbiamo un sacco di tempo libero, e questo, paradossalmente, ci mette in crisi totale. In questa crisi dobbiamo proporre soluzioni, cambiamenti, che ci possano permettere di gestire , il ruolo paterno con successo, con dignità, avanzando proposte concrete per inserirci in ambiti educativi meglio dei nostri genitori che qualche volta, più che delegare, scaricavano il problema alle donne.

Sempre più spesso invece collaboriamo con la madre dei nostri figli nella routine quotidiana. Siamo partecipi dell’evoluzione della struttura familiare. La sociologia afferma che negli ultimi quarant’anni, i ruoli dei genitori hanno subito una modificazione radicale. La donna, oltre che continuare ad essere l’angelo del focolare, ha una sua occupazione anche all’esterno della famiglia per contribuire alla propria realizzazione e al mantenimento della famiglia. Allo stesso modo è cambiato il nostro ruolo: da unici referenti economici a collaboratori attivi all’interno della famiglia. Se siamo padri migliori, potremo contribuire ad avere figli migliori. Quando esplichiamo il nostro ruolo in modo forte e positivo, soprattutto nell’area educativa, ogni componente della famiglia ne trae un beneficio.
In una ricerca effettuata negli U.SA è risultato che ben 1’80%degli adulti detenuti in prigione, erano cresciuti all’interno di una famiglia dove la figura del padre era assente, ovvero dove la qualità del rapporto padre-figlio era fortemente disturbata. Maggiore è la nostra vicinanza alle esigenze dei nostri figli, maggiore, secondo le ricerche, è la loro concentrazione, il desiderio di imparare e la loro maturità.
Volevo parlarvi quindi della funzione paterna e della funzione materna secondo il modello che la psicologia del benessere ha elaborato da molti anni. Immaginate un albero con le radici, il tronco e i frutti. Questo albero simboleggia il nostro modo di essere, rappresenta il radicamento della vita (le radici), ciò che ha contribuito a realizzare la nostra persona, le basi su cui è centrato il nostro carattere ed i risultati che abbiamo ottenuto con queste energie (i frutti). I frutti, le realizzazioni, la nostra personalità, le prestazioni che otteniamo dipendono da determinate condizioni e queste condizioni si appoggiano su un vissuto, su esperienze che la vita ci ha proposto e su come noi le abbiamo percepite.

Partendo dalle radici possiamo essere consapevoli di come si sviluppa una personalità che trae origine dai codici genetici trasmessi dai genitori. Le principali radici individuate nell’ambito della ricerca che la psicologia del benessere ha elaborato sono quattro:

• La prima radice è la fonte energetica, lo stile di vita. Vuoi dire l’energia di cui disponiamo per agire e mettere in azione i nostri propositi. Questa radice ha a che fare con la gestione della propria alimentazione, con i cicli biologici della veglia e del riposo, con la gestione dello stress, con il respiro. Maggiore è la gestione delle nostre energie, maggiore sarà la nostra capacità di alimentare il motore della nostra personalità. Una persona stressata, per esempio, avrà certo più difficoltà a comunicare in modo sereno; probabilmente avrà momenti in cui non saprà controllare certi impulsi (“…poi non ci vedo più e lo picchio”); e quando non si controllano certi impulsi non riusciamo di certo a risolvere con fermezza le comuni problematiche che ci pone il ritorno a casa. Non è certo un problema che attanaglia solo noi papà: anche gli sportivi spesso sono trattenuti dalla tensione e per questo non realizzano prestazioni all’altezza dei loro talenti. Anche ai figli lo stress gioca brutti scherzi; a volte, per esempio, sono talmente agitati di fronte ad una interrogazione che riescono a dimenticare ciò che hanno studiato il giorno prima, non hanno l’energia giusta per rispondere con adeguatezza.

• La seconda radice è l’autostima, ovvero il concetto che ognuno ha di se stesso. E’ la radice che riguarda l’identità che abbiamo di noi, il senso di adeguatezza che percepiamo di fronte ad un evento; è quell’identità che ci permette di raggiungere un limite di competenze oltre il quale non ci sentiamo “all’altezza di fare”, ci sentiamo inadeguati. L’autostima è il valore che attribuiamo alla nostra persona. Un ragazzo, che vede nel suo insegnante un’autorità giudicante e senza umanità, potrà inibirsi e non rispondere alle domande.

Come valutare l’autostima?
Da quattro semplici parametri: accettazione della propria corporeità, gestione delle emozioni, dare valore ai propri pensieri e saperli mettere in pratica.

1. L’autostima si valuta inizialmente da come portiamo il nostro corpo, da come lo accettiamo, da come lo portiamo in giro, da come lo percepiamo degno di esistere, dall’accettazione che abbiamo della nostra fisicità. Potrete immaginare che un adolescente, nel periodo delle trasformazioni fisiche abbia questa tipologia di autostima ai minimi livelli; questo capita soprattutto alle ragazze, spesso ‘massacrate’ da una televisione che propone solo “ragazze anoressiche” di fianco a panciuti conduttori.
Ed è proprio nel momento dell’adolescenza così bistrattato che emergono, nelle persone più sensibili, alcuni disagi legati alla non accettazione corporea, soprattutto collegati ai disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia) o del comportamento.
Se non amiamo il nostro corpo, è difficile vivere liberamente l’essere osservati. Chi sente di avere il seno troppo grosso, allora incomincia ad incurvarsi, chi si sente troppo alto si piega, chi si sente troppo basso incomincia a camminare sulle punte, compaiono i maglioni enormi, le mani vengono nascoste, i capelli posti davanti alla faccia … Anche per noi adulti è fondamentale avere un positivo rapporto con la corporeità. Un imprenditore deve saper parlare in pubblico, un venditore deve negoziare, tutti dobbiamo saper gestire che il nostro corpo è sempre esposto agli sguardi degli altri. Chi sente questo problema sentirà il desiderio di nascondersi attraverso alcuni gesti: movimenti più impacciati, non guarda le persone negli occhi, stringe la mano mollemente, ecc… Per lo sportivo lo spazio che deve occupare con il corpo è fondamentale; un calciatore, per esempio, deve vivere lo spazio del campo, avere un territorio che possiede e dove agisce; quindi corpo inteso come senso del proprio potere, potere personale naturalmente.

2. Successivamente l’autostima si valuta da come gestiamo le nostre emozioni, un campo dove il genere femminile è fortissimo e dove il genere maschile ha maggiori problemi. Cosa vuoi dire gestire le emozioni? Vuoi dire permettersi di riconoscere, accettare ed esprimere un’emozione per come la si sente.
L’essere femminile, generalmente, ha una capacità straordinaria di riconoscere le emozioni e di esprimerle; ogni gruppo di ragazze parla e manifesta le proprie emozioni fin dalla più tenera età. Hanno la capacità di manifestare i propri sentimenti verbalizzandoli. Hanno la capacità di piangere e di ridere senza essere soffocate da una società che invece vuole l’uomo sempre controllato. Quando un maschio può piangere? AI funerale della madre o quando vince un’Olimpiade! E quando accade troppo spesso si è già diffidenti!
Questa è proprio una grande difficoltà del padre: il trattenimento emotivo, la difficoltà di parlare del proprio stato d’animo.
Per noi può essere difficile manifestare uno stato d’animo; raramente sento padri che riescono a parlare dei propri sentimenti (provo questo, desidero parlare di questo, ho sbagliato, grazie per ciò che mi hai fatto). Se per noi è difficile, quando potremo comunicare ai nostri ragazzi che esprimersi, parlare di ciò che si sente è una cosa positiva?
In questo senso manca molto la figura paterna, quella figura che sa guardare dentro di sé senza timori e affronta le tempeste dei propri stati d’animo con coraggio e umiltà; quella figura che sa quanto vale, ma che sa anche guardare in faccia i propri limiti e non vi si nasconde dietro, li ammette e per questo li domina, li accetta ed è per questo che ogni giorno li sposta oltre le difficoltà. Manca la figura paterna quando dobbiamo comunicare ai nostri ragazzi che una debolezza conosciuta è anche una grande forza e che manifestare le proprie emozioni è simbolo di consapevolezza.
E’ molto raro sentire figli che apprezzano il nostro modo di parlare perché quando diciamo: “parliamo…”, in realtà vogliamo dire: “adesso io ti dico qualcosa, tu ascoltami e, dopo devi fare certe cose…”. Spesso diamo solo ordini, spesso imponiamo, qualche volta minacciamo sanzioni improponibili, qualche volta minimizziamo i problemi per non ascoltarli, altre volte ci troviamo in fuga nella nostra passività e debolezza. E purtroppo questo accade anche quando viviamo emozioni positive, i complimenti non sono il nostro forte.

3. Abbiamo parlato del corpo, delle emozioni. Ora il terzo parametro per valutare la nostra autostima è il pensiero, ovvero il valore che attribuiamo alle nostre idee. Credere di avere buone idee e sentirsi all’altezza delle situazioni ci porta al quarto parametro:

l’azione (4), cioè mettere in pratica i nostri pensieri. Certo, se non ci sentiamo all’altezza di un compito, o di una responsabilità, la realizzazione diventa difficile; più spesso siamo portati a fallire per reggere le tensioni. Chi non si sente adeguato va sotto stress, oppure si emoziona, va in ansia, perde il proprio controllo.

• La terza radice è il retroterra materno. Secondo la psicologia del benessere, il retroterra materno è la rappresentazione interiore di come “sentiamo nostra madre” e di come sentiamo l’amore che ci ha dato; è l’idea che dentro di noi vive di ciò che nostra madre ha rappresentato, per ciò che è stata e per ciò che abbiamo desiderato fosse.
E’ la rappresentazione del codice affettivo. Il codice affettivo ci porta la capacità di amare e di essere amati. Ci porta a riconoscere il sentimento, a vivere affettivamente le persone e le situazioni, ci porta l’emozione di sentire di essere amati.
Più abbiamo sentito una madre anaffettiva, più sentiamo un senso di rabbia o di rancore per ciò che non ci ha dato; più sentiamo difficoltà ad accettare questa figura per come ci ha trattati, maggiore sarà la difficoltà a vivere con sentimento i rapporti, di qualsiasi natura. Il risultato sarà vivere razionalmente l’amore, essere sostanzialmente indifferenti verso gli altri, quel senso di distacco e di congelamento che ogni tanto anche noi sentiamo in una persona. Anche in ambienti professionali si sente se c’è umanità.
In positivo, invece, il retroterra materno ci permette di provare un sentimento, di entrare in profondità nelle comunicazioni, ci permette di ascoltare le atmosfere quando entriamo in un ambiente, ci permette di essere sensibili, percettivi; ci permette di provare un sentimento d’amore verso la persona con cui si vive, ci permette di provare amore verso i nostri figli. E’ l’umanità che gli altri percepiscono in noi.

• La quarta radice è il retroterra paterno. finalmente veniamo a noi. Il retroterra paterno è la somma di ciò che è stato nostro padre con l’idea che abbiamo di un padre ideale. Quanto maggiore è il sentimento positivo che abbiamo per questa nostra figura, maggiore è la capacità di esprimere la nostra paternità, senza sforzo. E’ il codice d’azione, il codice che ci permette di agire, di fare, di decidere. Il retroterra paterno ci da la possibilità di penetrare verso la vita con determinazione di affrontare un problema. Se la figura paterna, come spesso purtroppo accade, resta latitante o indifferente e centrata su se stessa, nel bambino potrà esserci una certa difficoltà a comprendere l’atto penetrativo della vita (anche se la madre, oggigiorno, fa comunque un ottimo lavoro su questo aspetto), intendo penetrativo come fattore biologico, senza nessuna implicazione di carattere morale e senza dare valori positivi o negativi riguardo a questo aspetto. Spesso quindi, quando manca il padre, manca la figura che veicola, da millenni e fino ad oggi, l’aspetto logico e razionale del vivere la vita; manca cioè l’aspetto della decisione e del fare. Quando affermo “manca il padre”, intendo che non è mentalmente presente. Ci sono dei padri tra noi che sono assenti quando tornano a casa, che hanno staccato il collegamento con la famiglia, padri indifferenti, padri assenti come modello.

Si è visto invece che i bambini cresciuti con i loro padri accanto, ma soprattutto che hanno avuto un rapporto di intima confidenza e rispetto, l’uno verso l’altro, sono più sani, più felici e più produttivi. Avere un padre presente ed attivo è decisamente incoraggiante: i ragazzi realizzano meglio e con minor dispendio di energie, ogni cosa. La figura paterna è responsabile del necessario distacco tra il bambino e la madre e il conseguente ingresso nel mondo esterno. Abdicare ad un ruolo autoritario, quindi, non significa necessariamente deprimere quella componente di autorevolezza che attribuisce ai padri la capacità di amare, ma anche di porre limiti in modo chiaro e sereno, aiutando così il bambino a crescere adeguatamente equipaggiato anche emotivamente per affrontare con sicurezza la società esterna. Lavorando con gli adolescenti mi capita spesso di incontrare ragazzi che prendono poche decisioni, che si fanno guidare dai leader negativi, che si fanno prendere dagli amici più strani, che non hanno rispetto delle regole, che non hanno rispetto dell’autorità, che non riescono a prendere delle decisioni riguardo la loro vita. Sono le persone tendenzialmente dipendenti, che hanno bisogno ancora di cercare un papà, e quindi di cercare una conferma. Più siamo padri assertivi, forti, interessanti, che dialoghiamo, più i nostri figli hanno la capacità di agire positivamente in un contesto, anche difficile. Ulteriori studi hanno mostrato che quando siamo disponibili alle loro esigenze, soprattutto nell’età adolescenziale, i nostri figli strutturano una forte autostima e la consapevolezza di poter aumentare le difese verso gli eventi negativi. Sappiamo quindi che essere un buon padre aiuta a formare dei ragazzi ben orientati. Nella radice paterna, affonda quell’energia che permette al ragazzo di raggiungere certi obiettivi con entusiasmo e passione, quella forza che gli permette di amare lo sforzo di un lavoro per raggiungere un risultato. Spesso è sulle spalle della madre anche questo fardello: spingere alla cultura, spingere all’autorealizzazione.

Noi padri possiamo fare molto nello sviluppo di un fanciullo; come la madre nutre di latte e amore spesso incondizionato la crescita di un figlio, noi padri possiamo guidare le energie supportando emotivamente la crescita e lo sviluppo personale. Essere padri altruisti e coinvolgenti aiuta nostro figlio a percepire meglio se stesso e se stesso immerso nel mondo. Ma se il nostro supporto è quello di intervenire dicendo solo: “studia di più” solo quando c’è la pagella e latitando nelle altre fasi dell’anno (mai presentandoci alle udienze, non facendoci mai vedere interessati ai processi dell’apprendimento, non dedicando spazio al controllo dei compiti, ecc…) è difficile che un figlio possa prendere da noi la consapevolezza dei propri talenti.
Un caso specifico di quanto ora sto dicendo è quello delle separazioni: nel 90% dei casi è la madre che si assume l’onere di educare e svolgere un doppio lavoro: da una parte trasmettere amore e codici affettivi, dall’altra dare le regole e i limiti. Quando le madri riescono a farlo sono veramente grandi.