Per i genitori di oggi, un figlio spesso rappresenta un problema psicologico: non sono certi di capirlo e hanno paura che un comportamento sbagliato possa determinare in lui traumi insanabili. A volte i genitori si trovano impreparati, altri si allarmano, altri si chiudono, molti abdicano.
Tra litigi e ripicche, musi lunghi e silenzi, l’incomunicabilità spesso regna sovrana e, talvolta, le difficoltà appaiono così insormontabili che essere in grado di fronteggiarle diventa un’impresa ardua. Che non può e non deve trasformarsi in un’impresa impossibile.
Occorre imparare i segreti del mestiere, che non sempre esistono, o almeno che non sempre sono a portata di mano o facili da mettere in pratica.
Imparare ad educare si può. L’obiettivo del nostro Team è quello di aiutare i genitori a farlo. Con un approccio diretto e concreto, abbiamo esaminato i principali ambiti dove le conoscenze ci possono essere utili per espletare questo compito con maggiore serenità.
Il percorso di conoscenza e di crescita che ne abbiamo tratto vuole essere uno strumento concreto per aiutare i genitori a comprendere cosa succede nel corpo e nella mente di un figlio, da quando nasce al periodo dell’adolescenza.
Nella nuova formazione che il nostro Team propone, il genitore può avere gli strumenti adeguati per il proprio miglioramento e utilizzare quella forza, quella energia che lo muove concretamente verso la risoluzione delle problematiche, utilizzando tutti i contenuti appresi in teoria. Le tecniche, infatti, tendono a trasmettere dei messaggi comportamentali per evidenziare in forma concreta quelle aree di miglioramento che necessitano al partecipante per sviluppare i propri talenti di genitore.
Nel controllo dell’atteggiamento mentale risiede il seme del successo.
L’Istituto di psicologia del benessere inizierà il percorso per genitori attraverso incontri e seminari dedicati.
Infanzia, che stress
E’ triste, sarà depresso? Nel dubbio, diamogli una pillola.
Se invece il bimbo è un terremoto, un altro farmaco lo trasformerà in un angelo.
In America fanno così. Ma è davvero questa la soluzione? Non è detto.
da un articolo di Gilda Lyghounis.
Fine dei miei dei dubbi amletici, sensi di colpa addio.
Si, perché da oggi per ogni comportamento sopra le righe dei pargoli non ci si interroga o angoscia più: basta una pillola e tutto si sistema.
Le mamme possono stare tranquille. Buttare a mare le bibbie della psicologia baby, che afferravano in preda al panico nei momenti di allarme rosso con i figli: “perché non mi lascia dormire?”, “perché si fa picchiare dal compagno di scuola?.
Di pasticche miracolose in arrivo ce ne sono addirittura due: il bambino è triste? Diamogli un antidepressivo. Dopo che l’autorevole Food and Drugs Administration (l’agenzia americana per i farmaci) ha approvato la versione pediatrica del Prozac, anche la Società Italiana di Pediatria si è espressa a favore della “pillola della felicità” per giovanissimi.
Il piccolo si ribella, è una peste, non sta mai fermo? Niente paura: ecco il Ritalin, prescrivibile anche in Italia dopo attenti accertamenti. E le polemiche infuriano: “L’infanzia è scomparsa”, si è indignato Gaspare Barbiellini Amidei sul Corriere della Sera: “Se il bambino è triste, oggi si dice depresso, gli si dà il Prozac. Se è irrequieto, oggi si dice iperattivo, gli si propone il Ritalin. Malata, invece, è la situazione nei confronti della quale i bambini segnalano attraverso un comportamento anomalo tutta la loro insoddisfazione”.
Perché una cosa è certa. Essere bambino, oggi, è una fatica. I figli sono sottoposti a continui tour de force fra scuola, corsi di lingue, nuoto o attività varie. E se non tengono il ritmo, ora li possiamo pure impillolare. Una nuova scienza, la cronobiopsicologia, dalla Francia lancia un allarme: i ritmi a cui costringiamo i nostri bimbi non rispettano il loro sviluppo naturale. E la fatica di crescere oggi più che mai genera nevrosi: un bambino su cinque, sostiene l’Oms, soffre di disturbi del comportamento. Nella maggior parte dei casi, però, basterebbe poco per ridurre il disagio. Come? Abbiamo fatto il punto.
Lo sport, il corso d’inglese, la televisione. Va tutto bene, purché a piccole dosi. Gli esperti sono tutti d’accordo: la serenità è anche questione di tempo.
A quale età lingue, sport e computer? Quanto tempo può stare davanti alla TV? Alla luce delle ultime scoperte della cronopsicologia e della psichiatria infantile, gli esperti mettono in discussione i tempi della società a misura di adulto. E sfatano molti luoghi comuni.
Almeno un’ora e mezza dedicata solo a lui
Quanto tempo i genitori devono dedicare a un bambino? Almeno un’ora e mezzo al giorno, sostengono Berry Brazelton, docente di pediatria a Harvard e a Greenspan, specialista in psichiatria infantile, nel loro saggio “I bisogni irrinunciabili dei bambini” (Cortina). Ma attenzione: non vale contare le corse in passeggino a fare la spesa “Fino ai sei anni un piccolo ha bisogno di almeno quattro periodi di venti minuti l’uno al giorno in cui la mamma o il papà, è a sua completa disposizione per giocare” raccomandano i due esperti che hanno battezzato questa “dose minima” con un nome suggestivo: il “tempo sul pavimento”. Quello cioè in cui ci mettiamo letteralmente al livello del bambino, e giochiamo a insieme a lui.
A parte, c’è invece il “tempo facilitante”: in cui lo si assiste in modo più indiretto mentre, ad esempio, fa i compiti. Monte ore totale? “I genitori che lavorano dovrebbero rendersi disponibili per almeno due terzi delle ore serali, dalle 18.00 alle 21.00?. Per un bambino, insomma, non conta solo la qualità ma anche la quantità del tempo trascorso insieme ai genitori.
Tennis e disegno senza esagerare
Il corso di disegno? Irrinunciabile. Il tennis? Così non sta fermo davanti alla TV. “E alla fine le giornate di un bambino sembrano l’agenda di un manager”, scuote la testa Laura Bonica, docente di Psicologia dell’educazione all’Università di Torino: “Trasportato come un pacco da un corso all’altro, quando troverà mai il tempo di “digerire” le esperienze fatte?
Il bambino ha bisogno di tempo per trasformare l’apprendimento in padronanza di sè. Per assimilare esperienze nuove ha bisogno di ripetere, alternare, provare e riprovare una strategia. Cose che a noi sembrano una perdita di tempo, ma sono importantissime”. Allora niente corsi? Dice Susanna Mantovani, docente di Pedagogia all’Università di Milano: “L’importante è non accumulare troppo. Al miei cinque figli ho sempre cercato di fare frequentare una sola attività settimanale, al massimo due se la mattinata di scuola non è troppo impegnativa”.
Giocare con gli amici è una palestra per il futuro
Di quanto tempo libero ha bisogno un bambino?
“Quando rincasano da scuola, i piccoli hanno bisogno di uscire e di giocare per almeno un’ora”, esortano i pediatri. Andare d’accordo con altri è una competenza che va acquisita. Per riuscire a destreggiarsi fra competizione e rifiuto i bambini devono passare molte ore insieme. Senza l’opportunità di sperimentare, si troveranno svantaggiati nei rapporti adulti
Leggere e scrivere, mai avere fretta
Leggere e scrivere? C’è tempo.
“Un bambino di oggi è sottoposto a molti più stimoli di uno di 50 anni fa, e in teoria potrebbe imparare a leggere a tre anni” spiega Laura Bonica: “Ma a questa età ha bisogno di giocare, non di concentrarsi su un libro.
I costi emotivi di un apprendimento forzato sono altissimi”. Per esempio ? Sollecitato prima del tempo, imparerà a leggere solo per fare contenta la mamma, e più tardi odierà la scuola”.
Tante piccole vacanze sono meglio di una lunga
La vacanza ideale? “Quindici giorni a casa ogni sette settimane di scuola”, dicono gli psicologi francesi Francois Testu e Roger Fontaine, che nel saggio “L’enfant et ses rythmes: pourquoi il faut changer l’ecole” (Il bambino e i suoi ritmi): perché bisogna cambiare la scuola, sostengono che troppi impegni, più che stimolare la crescita e l’intelligenza, le reprimono.
E’ d’accordo Laura Bonica: “Sarebbe meglio introdurre tante piccole vacanze nel corso dell’anno invece del grande intervallo estivo
Non solo compiti per insegnargli a studiare
I compiti? “No alle materne, non più di un’ora fino agli otto anni, non più un’ora e mezzo fino ai dodici: non più di due in seguito, tranne che prima degli esami” è la ricetta americana: “Troppi compiti sono assolutamente inutili. Dimostrano che la scuola è di scarsa qualità, altrimenti non ce ne sarebbe bisogno”, taglia corto Laura Bonica: “In ogni caso”, aggiunge Mantovani, “non bisogna mai aiutare i figli a farli. Basta controllare che li abbiano eseguiti”.
Poca tv, tanto sonno: le regole della cronobiologia
TV e computer? “Nei primi tre anni i bimbi non dovrebbero stare davanti alla TV più di mezz’ora al giorno”, raccomandano i pediatri . In seguito, mezz’ora in più di TV o di computer, ma con i genitori.
Aggiunge Laura Bonica: “Lasciati soli davanti a uno schermo babysitter, i bambini non riescono più a distinguere la realtà dall’immaginario”.
La regola d’oro? “Mai tenerli alzati fino a tardi davanti alla TV, per adattarli ai ritmi dei genitori”. E questo si sapeva: Ma i cronobiologi Testu e Fontaine vanno oltre: “E’ irragionevole che un bambino di cinque o sei anni, che ha bisogno di almeno dieci ore di sonno, debba essere a scuola alla stessa ora di un liceale”. Già, ma chi lo porta in classe alle 10 se la mamma va in ufficio? “L’importante è recuperare nell’arco della giornata”, dice Mantovani. La siesta dovrebbe essere fatta non solo all’asilo ma anche alle elementari”.
Pasticche dell’obbedienza e prozac in cartella
Due bambini su dieci soffrono di ansia. E tra i più piccoli aumentano tic e manie. Ma i pediatri sono prudenti: le medicine non sono caramelle. E vanno prescritte solo dagli specialisti.
Il bambino è una peste? Ecco la “pillola dell’obbedienza”.
E’ giù di corda? Largo al baby Prozac.
Accade in America, dove l’antidepressivo ha avuto il via libera anche per uso pediatrico. E dove i bambini più scatenati rischiano di venire calmati a forza di pasticche. In Italia, per il momento, si procede con cautela. La Società Italiana di Pediatria però si è detta favorevole all’uso del Prozac già a partire dagli otto anni, purché sotto lo stretto controllo di neuropsichiatri e neurologi infantili. E intanto anche da noi la pillola che in Usa ha già sollevato non poche polemiche: il metilfenidato, della famiglia delle anfetamine, la stessa dell’ecstasy, nome commerciale Ritalin.
Cosa cura esattamente? L’ADHD, sigla che sta per “Sindrome da deficit d’attenzione e iperattività”. Sintomi: il bambino non sta fermo un attimo, si distrae facilmente, interrompe i discorsi degli altri, talvolta è aggressivo.
“E’ una delle patologie più frequenti in età evolutiva e spesso non è diagnosticata per tempo”, spiega Paolo Curatolo, direttore del dipartimento di neuroscienze all’Università di Roma-Tor Vergata nonché presidente della Società Internazionale di Neuropsichiatria Infantile. Continua: “La prevalenza del disturbo, che è sei volte più frequente nei maschi che nelle femmine, è calcolabile nel 3 per cento dei bambini in età scolare”. Ed ecco entrare in scena il Ritalin. “Riequilibra i rapporti alterati fra dopamina e noradrenalina, il cui malfunzionamento può portare alla iperattività”, spiega Silvio Bareggi, neuropsicofarmacologo dell’Università di Milano.
Argento vivo
La Società psichiatrica americana dice che soffre di iperattività un piccolo su dieci all’asilo, con punte del 29 per cento fra gli undici e dodici anni. E che 3 bambini su cento in America sono depressi.
“Un’esagerazione”, mette in guardia il decano dei neuropsichiatri infantili italiani, Giovanni Bollea: “Staremmo freschi se a tutti i bambini tristi o vivaci dessimo il Prozac o il Ritalin. Cominciamo a farli vivere meglio: come fa un bambino a non essere agitato, quando la sua vita si svolge fra un’aula e un appartamento? Il suo bisogno di muoversi non trova sfogo: il 30 per cento delle scuole elementari non ha neanche la palestra: Abbiamo eliminato i cortili, le piazze in cui si poteva giocare. Basterebbe fare più ginnastica per risolvere molti disturbi psicomotori. Altro che medicine!”.
Attenzione, insomma, a non cadere nella trappola della pillola facile. “Le medicine possono servire in molti casi, ma guai a farle diventare una scorciatoia per deresponsabilizzare i genitori”, sottolinea Antonio Guidi, sottosegretario alla Sanità e neuropsichiatra infantile. La prima regola? Una diagnosi accurata.
Famiglie in crisi lasciate a se stesse
Spiega Bareggi: “I sintomi dell’iperattività devono essere presenti tutti insieme per almeno sei mesi. Non parliamo solo di un bambino agitato, che fatica a concentrarsi, ma anche con grosse difficoltà nell’apprendimento. Il farmaco può servire a calmarlo. E a permettergli di affrontare una psicoterapia, in ogni caso necessaria. Ma a prescrivere la medicina deve essere uno psichiatra esperto: ci sono troppi rischi ad abusarne”.
Quanto al baby Prozac “non è affatto innocuo perché interferisce con le funzioni cerebrali ancora non completamente sviluppate”, avverte lo psicologo Fulvio Scaparro. Che mette in guardia anche dai rischio di una dipendenza precoce. Polemizza lo psichiatra Luigi Cancrini: “Diciamo che l’ecstasy brucia il cervello agli adolescenti? Pensiamo a cosa può succedere in quello, ancora in crescita, di un piccolo di sei anni. Non solo: mettendo a tacere i bimbi con uno psicofarmaco, togliamo loro l’occasione di esprimere il loro disagio e di curarlo in altro modo”.
In ogni caso, non esistono pillole dei miracoli, come sottolinea Debra Ginsberg in Mio figlio Biaze (Garzanti), in cui descrive la sua odissea di mamma alle prese con un bambino difficile. Biaze viene considerato autistico, iperattivo, geniale. Sfugge alle rigide etichette della medicina: Per sua madre, è solo un bimbo speciale da crescere in un mondo normale. E alla fine, vince la sua battaglia.
Un aiuto ai genitori
Una cosa è certa: il problema esiste e va affrontato: lo sa bene Enzo Alello, vicepresidente dell’Alfa Onlus, l’associazione che riunisce le famiglie dei bambini affetti da ADHD.
“Denunciamo la mancanza di centri per la diagnosi e il trattamento. In questo contesto, molte famiglie non riconoscono il disturbo del loro bambino e non hanno comunque la possibilità di ricorrere alle terapie adatte”. Insomma, vietato chiudere gli occhi. Il malessere assedia il giardino incantato dell’infanzia. Secondo uno studio dell’Università di Pisa il 21 per cento dei ragazzini fra gli 8 e i 12 anni soffre di ansia: E tra i più piccoli aumentano tic e manie. Fino a che punto la colpa è delle nevrosi dei genitori? I bambini ci guardano e si stressano.