Io penso positivo

Negli anni trenta fu chiesto ad alcune giovani suore cattoliche di scrivere brevi saggi sulla propria vita. Le monache descrisserogli eventi cruciali della loro infanzia, le scuole che avevano frequentato, le proprie esperienze religiose e le motivazioni che le avevano spinte a prendere i voti. All’inizio quei documenti vennero usati per valutare il percorso religioso di ciascuna suora, ma poi finirono per essere archiviati e cadere nell’oblio.

Oltre sessant’anni più tardi, quegli scritti sono finiti in mano a tre psicologi dell’Università del Kentucky, che li hanno presi in considerazione nel contesto di un più ampio studio sull’invecchiamento e sulla malattia di Alzheimer. Deborah Danner, David Snowdon e Wallace Friesen hanno letto i saggi autobiografici delle suore e li hanno classificati in base al contenuto emozionale positivo, prendendo nota delle ragioni che le portavano a provare felicità, interesse, amore e speranza. Ciò che hanno riscontrato è sorprendente: le suore che avevano espresso più emozioni positive sono vissute fino a dieci anni più a lungo di quelle che ne avevano descritte di meno. E questo guadagno in termini di aspettativa di vita è considerevolmente più cospicuo di quello ottenuto da coloro che smettono di fumare.

Ma lo studio sulle suore non è un caso isolato. Molti altri ricercatori hanno riscontrato che le persone che si sentono meglio vivono anche più a lungo. Perché? Alcune risposte a questa domanda arrivano da una nuova branca della psicologia, la psicologia positiva, emersa circa cinque anni fa da un’idea di Martin Seligman, allora presidente della American Psychological Association (APA). Come molti psicologi, Seligman ha dedicato gran parte della sua carriera di ricercatore allo studio della malattia mentale. Ed è lui che ha coniato l’espressione impotenza appresa, per descrivere il modo in cui la mancanza di speranza e altri pensieri negativi possano trascinare un individuo nel vortice della depressione clinica.

All’inizio del suo mandato come presidente dell’APA, Seligman fece il punto sullo stato della psicologia, evidenziandone i significativi progressi nella cura delle malattie. Nel 1947 nessuna delle più gravi malattie mentali era curabile, mentre oggi almeno 16 sono trattabili con la psicoterapia, la psicofarmacoterapia o entrambe. Ma per quanto oggi la psicologia sappia venire incontro alle persone afflitte da vari disordini mentali, essa non ha virtualmente alcuno strumento solido dal punto di vista scientifico per aiutare la gente a rifiorire dal punto di vista emotivo. L’obiettivo di Seligman era quello di correggere questo squilibrio, sottolineando la necessità di una «psicologia positiva». Con l’aiuto dello psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, che ha coniato il concetto di «flusso» per descrivere le esperienze che culminano nelle motivazioni, Seligman definì il campo di indagine per quei ricercatori che si occupano di «ciò che rende la vita degna di essere vissuta». E così che molti ricercatori, me compresa, hanno cominciato ad occuparsi di psicologia positiva. II mio background, personale si rifà allo studio delle emozioni. Per oltre una decina d’anni mi sono occupata delle emozioni positive – gioia, appagamento, gratitudine e amore – per far luce sull’evoluzione del loro significato adattativo. Tra i ricercatori che studiano le emozioni, questa è una specializzazione rara. Sono molti di più i ricercatori nel campo, delle emozioni che hanno dedicato la carriera allo studio di emozioni negative, come rabbia, ansia e tristezza. La ricerca sull’ottimismo e sulle emozioni positive era vista da alcuni come qualcosa di frivolo. Ma il movimento della psicologia positiva sta cambiando questa visione.
Molti psicologi hanno finalmente iniziato a studiare il terreno in gran parte inesplorato dei punti di forza umani e delle fonti della felicità. Le nuove scoperte dalla psicologia positiva promettono di migliorare la funzionalità individuale e collettiva, il benessere psicologico e la salute fisica. Ma per sfruttare le potenzialità della psicologia positiva dobbiamo comprendere come e perché conta l’inclinazione verso ciò che è positivo. Per quanto sia eccezionale la scoperta che la gente in grado di pensare positivamente e di sentirsi bene viva di fatto più a lungo, essa solleva più domande di quante risposte riesca a fornire. In che modo, esattamente, i pensieri positivi e le sensazioni piacevoli aiutano la gente a vivere più a lungo? I pensieri e sensazioni piacevoli aiutano la gente a vivere anche in modo migliore? E perché le emozioni positive fanno universalmente parte della natura umana?
La mia ricerca traccia i possibili percorsi degli effetti sul miglioramento della vita che derivano dalle emozioni positive e tenta di comprendere come mai l’evoluzione abbiamo portato gli esseri umani a sperimentarle.

Perché tante emozioni negative?
Vi sono parecchie ragioni che spiegano perché le emozioni positive abbiano ricevuto scarse attenzioni in passato. Evidentemente abbiamo una tendenza naturale a studiare qualcosa che affligge il benessere dell’umanità, e l’espressione e l’esperienza delle emozioni negative sono responsabili di gran parte di ciò che turba questo mondo. Ma potrebbe anche darsi che le emozioni positive siano anche un po’ più difficili da studiare. Esse sono relativamente poche, e piuttosto indifferenziate: gioia, divertimento e serenità non sono facilmente distinguibili. Dall’altro lato, rabbia, paura e tristezza, invece, sono esperienze nettamente distinte

La mancanza di una distinzione è evidente nel modo in cui siamo portati a pensare alle emozioni. Basta considerare il fatto che le tassonomie scientifiche delle emozioni di base identificano solitamente un’emozione positiva ogni tre o quattro emozioni negative, e che questo squilibrio si riflette anche nel numero relativo dei termini usati per descrivere le emozioni.

Allo stesso modo, le emozioni positive presentano una gamma molto limitata di manifestazioni fisiche dell’espressione emotiva. Alle emozioni negative corrispondono specifiche configurazioni del volto cariche di un significato universalmente riconosciuto come segnale. Possiamo facilmente capire dall’espressione del volto se una persona è in preda alla rabbia, alla tristezza o alla paura. Viceversa, le espressioni per le emozioni positive non hanno un significato univoco: hanno tutte in comune il cosiddetto sorriso di Duchenne, in cui gli angoli delle labbra sono sollevati e i muscoli attorno agli occhi si contraggono, a rialzare le guance. Questa differenza è evidente se si osserva la risposta del sistema nervoso autonomo nel corso dell’espressione delle emozioni. Circa vent’anni fa, Paul Ekman e Fallace Friesen, due psicologi dell’Università della California a San Francisco, con Robert Levenson, dell’Università dell’Indiana, mostrarono che la rabbia, la paura e la tristezza evocano risposte distinte nel sistema nervoso autonomo. Viceversa, le emozioni positive non mostrano risposte distinguibili

Un altro degli ostacoli con cui si sono scontrati i ricercatori che studiano le emozioni positive sta nel fatto che all’inizio hanno cercato di spiegarle con modelli più consoni alle emozioni negative. Un concetto centrale, in molte teorie sulle emozioni, è che esse sono associate per definizione a impulsi che portano ad agire in modi specifici. La rabbia genera la pulsione ad attaccare, la paura a fuggire e il disgusto al rigetto. Naturalmente nessun sostiene che tutti finiamo per agire in maniera identica e automatica sulla base di queste pulsioni; piuttosto, le idee delle persone circa le possibili linee di azione si restringono sulla scia di queste pulsioni specifiche. E non si tratta semplicemente di pensieri che esistono nella mente: queste pulsioni implicano specifici cambiamenti fisiologici che predispongono alle azioni che abbiamo ricordato. Nel caso della paura, per esempio, una maggiore quantità di sangue affluisce ai grandi gruppi muscolari per facilitare la corsa.

Di solito i modelli che accentuano il ruolo di queste specifiche tendenze all’azione mettono le emozioni in relazione a precisi adattamenti evolutivi. Le emozioni negative hanno un valore adattativo intuitivamente ovvio: in un istante, restringono il nostro repertorio di pensiero-azione alle risposte che hanno favorito maggiormente la sopravvivenza dei nostri antenati in situazioni di pericolo. Sotto questo aspetto, le emozioni negative sono una soluzione efficiente a problemi ricorrenti che i nostri antenati si sono trovati ad affrontare.

Le emozioni positive, invece, non si spiegano così facilmente. Da questa prospettiva evolutiva, gioia, serenità e gratitudine non sembrano così utili come la paura, la rabbia o il disgusto. I cambiamenti corporei fisiologici, le pulsioni, gli istinti ad agire e le espressioni del volto prodotte dalle emozioni positive non sono così specifici o così intuitivamente rilevanti in termini di sopravvivenza, come gli effetti che scaturiscono dalle emozioni negative. Se le emozioni positive non hanno favorito la sopravvivenza dei nostri antenati in situazioni di rischio, allora quale valore possono avere dal punto di vista adattivo? Forse queste emozioni segnalavano semplicemente l’assenza di minacce.

Prove tecniche di apertura mentale
Riusciamo a capire qualcosa sul ruolo adattativo delle emozioni positive nel momento in cui abbandoniamo il quadro di riferimento utilizzato per comprendere le emozioni negative. Anziché risolvere problemi di sopravvivenza immediata, le emozioni positive risolvono problemi che riguardano la crescita e lo sviluppo personali. L’esperienza di un’emozione positiva predispone a un atteggiamento mentale e a un comportamento che preparano indirettamente un individuo ad affrontare successivamente situazioni più dure.

Nella mia teoria di «apertura» e «costruzione», ipotizzo che le emozioni positive servano a generare stati d’animo transitori di «apertura mentale», e così facendo contribuiscano a «costruire» un bagaglio di risorse personali durature. Possiamo verificare quest’idea andando a vedere come le emozioni positive contribuiscano a cambiare il proprio modo di pensare e di agire.

Con i miei studenti, ho condotto esperimenti nei quali si inducevano determinate emozioni nelle persone esaminate, sottoponendole alla visione di brevi filmati emotivamente evocativi. Suscitavamo gioia mostrando un gruppo di pinguini giocosi intenti a scivolare sul ghiaccio; serenità, con filmati di idilliache scene campestri, e tristezza, con scene di morti e funerali. Si utilizzava anche un filmato neutrale di «controllo»: un vecchio salvaschermo per computer che non poteva suscitare alcuna emozione.

Abbiamo poi valutato la capacità dei partecipanti a pensare in modo esteso. Attraverso dei test di elaborazione visiva, abbiamo misurato se i soggetti tendevano a osservare l’immagine nel suo insieme o si focalizzavano invece sui dettagli. Il compito del partecipante consiste nel giudicare quale, tra due figure di confronto, sia più simile a una figura «standard». Non c’è una scelta giusta o sbagliata, ma una figura assomiglia a quella standard nella sua configurazione generale, mentre l’altra le somiglia in alcuni dettagli. Con questa metodologia abbiamo riscontrato che, rispetto alle persone che si trovano in uno stato mentale negativo o neutro, le persone che sperimentano emozioni positive (come determinato in base alle dichiarazioni dei soggetti o in base a segnali elettromiografici del volto) tendono a scegliere la configurazione globale, e ciò sembra indicare un modo di pensare tendenzialmente più aperto.

Questa tendenza a promuovere un repertorio pensiero-azione più ampio è legata a una vasta gamma di effetti a valle delle emozioni positive sul pensiero. Gli esperimenti condotti in un arco di vent’anni da Alice Isen della Cornell University hanno mostrato come le persone che sperimentano emozioni positive pensino in modo effettivamente differente. Una serie di test ha messo alla prova il pensiero creativo utilizzando strumenti come il test delle associazioni remote di Mednick, che richiede ai soggetti di pensare a una parola che si correli in un modo o nell’altro ad altre tre. Così, per esempio, date le tre parole «movenza», «atomica», «straniera», la risposta corretta è «potenza». Per quanto in origine questo test fosse stato pensato per valutare le differenze individuali riguardo alla creatività, considerata come caratteristica relativamente stabile, la Isen e i suoi colleghi hanno dimostrato che le persone che sperimentano emozioni positive hanno in questo test prestazioni migliori rispetto alle persone in stati mentali «neutri».

In altri esperimenti, la Isen e colleghi hanno valutato la capacità di ragionamento di medici in tirocinio su alcuni casi clinici. Si faceva in modo che alcuni dei medici si sentissero gratificati offrendo loro un pacchetto di caramelle, poi si chiedeva di riflettere ad alta voce sul caso di un paziente con una malattia del fegato. Le analisi sul contenuto hanno rivelato come i medici gratificati fossero più rapidi a integrare le informazioni sul caso, e meno inclini a rimanere ancorati ai pensieri iniziali e ad arrivare a una conclusione prematura sulla diagnosi. In un ulteriore esperimento i ricercatori hanno mostrato come chi si trova nel bei mezzo di una complessa trattativa e viene indotto a uno stato di benessere sia più incline a trovare soluzioni integrative. Nel complesso, tutti gli esperimenti condotti dalla Isen e dai suoi colleghi hanno mostrato che, quando le persone si sentono bene, il loro pensiero diviene più creativo, integrativo, flessibile e aperto alle informazioni.

Effetti a lungo termine
Anche se le emozioni positive e la mentalità aperta che esse inducono sono momentanee, possono avere effetti profondi e duraturi. Ampliando l’attenzione e il pensiero, le emozioni positive possono condurre alla scoperta di nuove idee, azioni e legami sociali. Per esempio, la gioia e l’allegria forniscono molteplici risorse. Prendiamo i bambini che giocano nel cortile della scuola o gli adulti che si godono una bella partita di basket. Per quanto le loro motivazioni immediate siano semplicemente edonistiche, vale a dire rivolte a una gratificazione momentanea, essi stanno al tempo stesso costruendo risorse fisiche, intellettuali, psicologiche e sociali. L’attività fisica porta miglioramenti a lungo termine della salute, le strategie di gioco sviluppano capacità di risoluzione dei problemi, e il cameratismo rafforza i legami sociali che, in futuro, potranno offrire un sostegno cruciale. Simili collegamenti tra attitudine al gioco e successivi guadagni di risorse fisiche, sociali e intellettuali, sono evidenti anche in animali come le scimmie, i ratti e gli scoiattoli. Negli esseri umani, ci sono altri stati mentali e azioni positive che operano lungo linee simili: assaporare un’esperienza consolida le priorità di vita; gli atti altruistici rafforzano i legami sociali e costruiscono la capacità di esprimere amore e sollecitudine. E questi effetti si protraggono a lungo, anche dopo che l’emozione positiva iniziale è svanita.

Abbiamo recentemente verificato queste idee in un gruppo di persone esaminando le loro capacità di recupero e il loro ottimismo. Dopo averle intervistate nei primi mesi del 2001, e nuovamente nei giorni successivi agli attacchi terroristici dell’il settembre, abbiamo chiesto di identificare le emozioni che stavano sperimentando, che cosa avessero imparato dagli attacchi e quanto si sentissero ottimiste riguardo al futuro. E abbiamo riscontrato che dopo l’11 settembre quasi tutti si sentivano tristi, arrabbiati e molto spaventati. E oltre il 70 per cento era depresso. Tuttavia le persone che avevano mostrato grande capacità di recupero nella prima parte del 2001 esprimevano fortemente anche emozioni positive. II rischio che queste persone cadessero in depressione era dimezzato rispetto agli altri. Le nostre analisi statistiche mostravano che la tendenza ad avvertire emozioni positive metteva la gente al riparo dalla depressione.

La gratitudine era l’emozione positiva più comune, dopo gli attacchi dell’il settembre. La sensazione di gratitudine era associata all’avere imparato molte cose preziose da quella situazione di crisi, e a un incremento dei livelli di ottimismo. Le persone con buone capacità di recupero facevano affermazioni del tipo: «Ho capito che la maggior parte della gente nel mondo è di per sé buona». In altre parole, la sensazione di gratitudine favoriva l’apprendimento positivo, il che a sua volta generava ottimismo, come suggerisce la teoria di apertura e costruzione.

Di recente abbiamo completato un esperimento sull’effetto costruttivo delle emozioni positive. Nel corso di uno studio di un mese sulle esperienze quotidiane, abbiamo indotto un certo numero di studenti universitari che partecipavano a un test a provare più emozioni positive, chiedendo loro di trovare il significato positivo e il beneficio a lungo termine nelle loro migliori, peggiori e apparentemente ordinarie esperienze quotidiane. Alla fine del mese, rispetto agli altri studenti che non avevano compiuto questo quotidiano sforzo in cerca del significato positivo, i primi mostravano un aumento della capacità di recupero psicologico.

Dunque l’utilità del «sentirsi bene» va molto al di là della mera constatazione di un’assenza di minacce. Questa disposizione d’animo può trasformare le persone, renderle più ottimiste e migliorando le loro relazioni sociali. Di fatto, questa considerazione potrebbe risolvere il mistero evolutivo delle emozioni positive: grazie a esse, i nostri antenati avrebbero accresciuto le proprie risorse personali. E di fronte a una minaccia queste risorse si sarebbero tradotte in maggiori opportunità di sopravvivenza e riproduzione.

L’emozione che fa bene al cuore
Ci potremmo anche chiedere se vi siano altri benefici immediati nello sperimentare emozioni positive, a parte la tautologia «sentirsi bene è un bene». Uno degli effetti è correlato al modo in cui le persone affrontano le proprie emozioni negative. Se le emozioni negative restringono il campo mentale e quelle positive lo ampliano, allora forse le emozioni positive possono annullare gli effetti persistenti delle emozioni negative.

Questi effetti a volte possono estendersi anche all’ambito fisiologico. Alle emozioni negative si associano risposte fisiologiche distinte (come detto in precedenza): alcune di queste riguardano il sistema cardiovascolare. Molti studi indicano che l’attività cardiovascolare associata a stress ed emozioni negative, specialmente se prolungate e ricorrenti, può promuovere o aggravare una cardiopatia. Esperimenti condotti sui primati rivelano che l’attività cardiovascolare correlata a emozioni negative ricorrenti può danneggiare le pareti interne delle arterie e promuovere l’insorgenza di aterosclerosi.

Poiché le emozioni positive ampliano il repertorio di pensieri e azioni, esse possono anche allentare la presa che le emozioni negative esercitano sia sulla mente sia sull’organismo, e in tal modo annullare gli effetti fisiologici delle emozioni negative. Con l’aiuto dei miei colleghi ho verificato questa ipotesi grazie a una serie di esperimenti. Abbiamo iniziato con l’indurre un’emozione negativa, comunicando ai partecipanti che avevano un minuto per preparare un discorso che sarebbe stato registrato con una videocamera e poi valutato. L’assegnazione di questo compito induceva un senso di ansia che comportava un incremento delle pulsazioni cardiache, della vasocostrizione periferica e della pressione sanguigna. Successivamente si sottoponevano casualmente i partecipanti alla visione di un filmato scelto tra quattro diversi, due dei quali evocavano emozioni blandamente positive (divertimento e senso di pace), un terzo, neutrale, serviva da controllo e un quarto suscitava tristezza. Quindi abbiamo misurato il tempo trascorso dall’inizio del film all’istante in cui i valori cardiovascolari che avevano subito un mutamento provocato dal compito richiesto ritornavano ai livelli regolari di ciascun soggetto. I risultati sono stati coerenti: gli individui che avevano assistito ai due film in grado di suscitare emozioni positive ritornavano alla loro normale attività cardiovascolare più rapidamente di quelli che avevano visto il film neutro. Quelli che avevano assistito al film «triste» mostravano un recupero più tardivo. Le nozioni positive avevano quindi il chiaro effetto di annullare le ripercussioni cardiovascolari delle emozioni negative.

Al momento, i meccanismi cognitivi e fisiologici di questo effetto di «annullamento» sono ignoti. Può essere che l’ampliamento della prospettiva cognitiva di un soggetto in cui si inducono emozioni positive sia in grado di mediare questo «annullamento» fisiologico, ma qualsiasi ipotesi in questo senso deve ancora essere confermata.

E per finire, una nota positiva…
Come è possibile, dunque, che le emozioni positive favoriscano la longevità? Come mai le suore felici vivono più a lungo? Sembra che le emozioni positive servano a qualcosa di più che a farci semplicemente sentire bene nel presente. L’effetto di «annullamento» indica che le emozioni positive possono ridurre il «danno» fisiologico sul sistema cardiovascolare causato dalla percezione di emozioni negative. Ma altre ricerche suggeriscono che in ballo ci sia qualcosa di più. Sembra che sperimentare emozioni positive si traduca in un aumento della probabilità di sentirsi bene anche nel futuro.

II mio collega Thomas Joiner e io abbiamo cercato di valutare se la sensazione positiva e l’apertura mentale si rafforzino a vicenda, con l’effetto di aumentare sempre di più il benessere di un individuo. Abbiamo misurato le emozioni positive e l’apertura mentale in 138 studenti universitari in due occasioni diverse, a distanza di cinque settimane (al tempo Ti e T2) e con test psicologici standard. Confrontando le risposte degli studenti nelle due occasioni, abbiamo registrato alcuni risultati molto interessanti: l’emozione positiva nel momento Ti predisponeva a un aumento sia dell’emozione positiva sia dell’apertura mentale al tempo T2; e l’apertura mentale a Ti predisponeva un incremento sia delle emozioni positive sia dell’apertura mentale a T2. Ulteriori analisi statistiche hanno messo in luce l’esistenza di un effettivo rafforzamento reciproco tra emozioni positive e apertura mentale. Questi risultati suggeriscono che le persone che avvertono regolarmente emozioni positive seguono, per certi aspetti, una spirale ascendente di continua crescita.

Ma le emozioni positive non si limitano a trasformare gli individui. Secondo me, esse possono anche trasformare gruppi di persone all’interno di comunità e organizzazioni. La trasformazione collettiva diventa possibile nel momento in cui l’emozione positiva di ciascuno può avere un’eco negli altri. Prendete, per esempio, i gesti di aiuto e compassione. La Isen ha dimostrato che le persone che sperimentano emozioni positive diventano più disponibili nei confronti degli altri. E questo atteggiamento non solo scaturisce da emozioni positive, ma produce a sua volta altre emozioni positive. Le persone che offrono aiuto, per esempio, possono sentirsi intimamente soddisfatte delle proprie buone azioni, e così sperimentano continuamente buone sensazioni. Inoltre, le persone che ricevono aiuto possono provare gratitudine, e coloro che si trovano semplicemente a constatare dall’esterno le buone azioni possono sentirsi, allo stesso modo, elevati emotivamente. Ciascuna di queste emozioni positive – soddisfazione, gratitudine e altri sentimenti edificanti – può a sua volta ampliare la mente degli individui e ispirare altri gesti di compassione. Così, creando una catena di eventi carichi di un significato positivo per gli altri, le emozioni positive possono innescare circoli virtuosi che trasformano le comunità in organizzazioni sociali più coese, morali e armoniose.

Tutto ciò suggerisce la necessità di sviluppare metodi per sperimentare più spesso emozioni positive. Per quanto il ricorso all’umorismo, alla risata e ad altri tentativi diretti a stimolare le emozioni positive possa funzionare, di tanto in tanto, spesso questi mezzi appaiono davvero insufficienti, soprattutto se la vita ci mette a dura prova.

In base ai nostri recenti esperimenti con gli studenti universitari, sono dell’avviso che si debba piuttosto tentare di coltivare le emozioni positive in modo indiretto, ricercando un significato positivo nelle circostanze del momento, che può essere trovato andando alla ricerca dei benefici portati dalle avversità, dando un senso agli eventi ordinari e cimentandosi nella risoluzione di problemi. Si possono trovare benefici in situazioni spiacevoli, per esempio, concentrandosi sulle risorse che si trovano dentro di sé e con l’aiuto degli altri. Si può infondere un senso negli eventi ordinari esprimendo apprezzamento, amore e gratitudine anche per le piccole cose.

E si può trovare un significato positivo attraverso la risoluzione di problemi che vengano incontro alle persone bisognose in modo compassionevole. Così, per quanto le emozioni positive possano essere l’ingrediente attivo della crescita e della capacità di recupero, il fulcro della leva per accedere a questi benefici sta nella ricerca di un significato positivo.

In conclusione, quanto fa bene pensare al bene che c’è nel mondo? La mente può essere un potente alleato. Come insegna John Milton: «La mente è condizione di se stessa, e in se stessa può fare dell’inferno un paradiso e del paradiso un inferno». La nuova scienza della psicologia positiva inizia a chiarire in che modo avvengano queste trasformazioni. Pensa al bene che esiste nel mondo, o trova in qualche modo un significato positivo, e pianterai il seme delle tue emozioni positive. Concentrarsi su ciò che è buono può non solo cambiare la tua vita e la tua comunità, ma forse anche il mondo intero. E, col tempo, fare della terra un paradiso.

Per approfondire

ASPINWALL L G. e STAUDINGER U. M., A Psychology of Human Strength: Fundamental Questions and Future Directions foro Positive Psychology, American Psychological Association, Washington, 2003.

B. L FREDERICKSON e altri, What good are positive emotions in crises?.A prospective study of resilience and emotions following the terrorist attacks on the United States on September 11th, 2001, «joumal of Personality and Social Psychology» Vol. 84, pp. 365-376, 2003.